Il sole si spegne – di Osamu Dazai

Buongiorno miei cari coffees, miei cari lettori!

Tra la primavera inoltrata e i fiori che, coraggiosamente e con resilienza cominciano a serpeggiare tra i nostri prati, giardini e sotto le nuvole che plumbee, vagheggiano nell’immensità del cielo verso l’orizzonte, ho deciso di immergermi nella lettura di un’opera di un autore che, nell’assurdità delle tante differenze che ci legano, ha letto o meglio “strappato dalla viscere dell’esistenza” quei tormenti rispetto cui l’animo umano, compreso il mio, spesso ha sadicamente desiderio di mettersi alla prova.

Sciogliersi nel fuoco tormentoso della vita o immergersi e gelarsi nell’oblio della morte?

“Mentre scrivo ho l’impressione che io e lei, come mi ha detto quella volta, siamo morte e siamo tornate in vita trasformate in persone differenti, ma non credo che una resurrezione come quella di Cristo sia concessa agli esseri umani.”

La morte stordisce, rivoluziona, ci rende consapevoli, colpevoli e responsabili dello spazio occupato dalla propria esistenza in questo mondo; la vita resa con gli occhi della felicità, del coraggio, della tormentata coscienza della vita che si evidenzia sull’abisso della morte e che, nell’oscurità più cupa ed eterna si innalza verso una sola ed unica azione prevedibile, certa, insindacabile e imprescrivibile da nessun’altro, quantomeno neppure da noi stessi.

Il sole si spegne”, così Osamu Dazai intitola il suo lavoro, un’opera che ci parla dell’occidentalizzazione dell’Oriente, di quel saggio sole che mai però è realmente tramontato sulle colline del Sol Levante. Ci parla del riscatto del proprio presente, del timore di un passato fallito e di un futuro irrisolvibile e perso tra i meandri di un velo invisibile fatto di dolore, sofferenza e delusioni.

Dazai ci parla di una perdita in partenza, una partenza per la vita prevenuta dalla fama delle illusioni e della loro falsa credibilità, la perdita di se stessi, della propria cultura, delle proprie tradizioni, del proprio centro nell’infinità del mondo. Un pessimismo ricercato, intellettuale, tradizionalistico e orientalmente conservatore che si fa fuoco ardente di una ricerca: il punto fermo della propria esistenza.

La morte come spazio complementare ed integrato alla vita, non una scelta ma un avvenire certo e chiaro, un viaggio prevedibile quando nella vita il prezzo da pagare resta la ricerca incommensurabile della felicità, per la morte non si lascia spazio se non alla fiducia in quel sole che, con fermezza ed arbitrarietà, proprio come ciascuna storia, con le proprie radici e valori sociali, tramonta lasciando non altro che la gelida realtà del buio, credibilmente l’unica vera alba dell’esistenza.

“Oggi, mentre mi guardava lavorare, tutt’a un tratto ha detto:

< A quanto dicono, le persone che amano i fiori estivi muoiono in estate, ma sarà vero? >

[…] < Io preferisco le rose. Però fioriscono tutto l’anno: mi chiedo allora mi chiedo se le persone che amano le rose debbano morire in primavera, in estate, in autunno e in inverno.>

Abbiamo riso entrambe.”

L’ingenuità e il timore di perdersi nelle emozioni e nella propria umana sensibilità per poi innamorarsi della felicità, ed assistere nostalgicamente e bruscamente alla “strage delle illusioni”, come avrebbe scritto il mio caro autore del cuore Giacomo Leopardi, fanno parte del sentiero che abbiamo inconsapevolmente deciso di scrivere per noi stessi.

La morte viene ricercata di fronte al valore dell’illusione e della romantica malinconia e proprio lì, quando la vita è percepita inadeguata sui piatti della bilancia dell’esistenza, abbandonarsi allora all’eleganza dell’irreversibilità del gesto, incapaci di percepire la ricchezza e la preziosità della vita nei suoi mille ed immensi colori che questa è capace di offrirci ogni giorno, sembra essere l’unica soluzione sadicamente umana.

Torturare la propria quotidianità, costruirsi volutamente dei rapporti difficoltosi, vivere il momento senza curarsi di nulla che non sia il nichilismo, centro gravitazionale della fine, nello spazio tra se stessi e il mondo, tra se stessi e gli altri, tra se stessi e la propria vita.

Ah, come mi piacerebbe raccontare ogni cosa senza nascondere nulla. A volte, nel segreto del mio cuore, mi dico che la pace sulle alture è fasulla, è menzognera. […]

Ah, come sarebbe bello se questa sensazione fosse solo un effetto della stagione, perché ormai non riesco più a sopportare questa vita. Il gesto riprovevole che ho commesso l’altro giorno – bruciare delle uova di serpente – è un segno inconfutabile di quanto io sia diventata nervosa. Tutto quello che ho fatto ottiene solo l’effetto di rendere la mamma più triste e più debole.

Quanto all’amore…No, dopo aver scritto questa parola, non riesco più a proseguire.”

Sapere di poter essere potenzialmente felici senza altre pretese materialistiche, trova per l’autore Osamu Dazai, il suo apice nel coraggio di rinunciarvi, abbandonarsi alla speranza di un futuro fatto secondo le proprie edificate illusioni per poi tuffarsi, con indiscussa arbitrarietà e difficoltosa accettazione, nel vortice di quella nobile oscurità per poi dirsi, con un debole tono di umana incomprensione, addio.

Abbandonare la vita, lanciarsi tra le braccia dell’oblio eterno per Dazai, si dimostra esattamente come una risata demoniaca verso una vita, quella della protagonista come sarà poi anche per lo stesso autore nella realtà, percepita come un orologio che, secondo dopo secondo, ha risuonato nel tempo fin troppo a lungo.

La Coffeer #