Dio di illusioni – di Donna Tartt

Buongiornissimo coffees, miei cari lettori e buone Feste!

Siamo qui per la stesura dell’ultima #recensionealvolo del 2022 legata ad una delle letture che sono rientrate, con grande discrezione, tra le letture che più mi hanno coinvolta e trattenuta tra le proprie pagine con la forza della narrativa e dell’imprevedibilità e alle quali ho voluto, seppur con prudente circospezione, affidare il mio personale rating da “5 stars”.

La lettura che tanto giace sulle spine è Dio di Illusioni di Donna Tartt, vincitrice del Premio Pulitzer 2014 con “Il cardellino”, il titolo con la quale l’autrice si è rivelata al mondo della letteratura e dell’editoria.

Dio di illusioni è conosciuto come uno dei titoli rappresentativi del genere Dark Academia, luogo di spunto per molti dei titoli che nel mondo dell’editoria hanno preso piede negli anni a seguire in tale campo letterario.

Il simbolo è quello del classicismo, in cui la celebrazione di un passato mitico ed idealizzato, tra studi latini e greci, riti dionisiaci, droghe e sottili giochi erotici lasciano lo spazio alla messa in atto di una notte maledetta, in cui non sarà solo la violenza a prevalere ma concedendo come un’espiazione, la caduta inesorabile del mondo, pezzo dopo pezzo.

Forse una cosa come “il fatale errore”, quell’appariscente, cupa frattura che taglia a metà una vita, può esistere al di fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina.

Nel corso delle pagine si osserva come l’amore per il classico e il dionisiaco attraversi le vite dei diversi personaggi caratterizzandoli, metamorfizzandoli e assumendone il controllo in ogni singolo atto della propria vita partendo da Henry, fino a Charles e Camilla, passando per Richard, per poi in realtà esprimersi carnalmente in Bunny come manifestazione piena e risoluta su cui scagliare tale ossessione e sulla quale fine sorge l’inizio di un processo di ascesa verso il pieno assorbimento di tale cupa psicosi mistica e collettiva.

Pagina dopo pagina, l’ascesa e la pomposità dell’amore per il classico e il dionisiaco converge verso la caduta abissale della vita umana, verso la sua più oscura perversione colta dall’assenza di umanità in cambio di una freddezza quasi disturbante, seguita dal timore per la messa da parte dei propri ideali piuttosto che per la cura della propria stessa vita mentre l’egocentrismo e il nichilismo imperversano fino alla morte come simbolo di rinascita ed aspirazione al superomismo.

La classicità greca diviene agorà di miti e ascese alle forme d’armonia, ordine, raffinatezza ed eleganza, nucleo di conflitto eterno tra apollineo e dionisiaco e dunque tra razionale ed irrazionale.

La morte perversa ed insensata, sottointesa ma rilevante al fine di concretizzare il significato intrinseco dell’intera storia, si presenta come una narrazione che si fa metafora di un tormento ossessivo e malato per la classicità dove l’uomo si perde per poi assimilare in sé un Concetto divenuto il suo fine ultimo e perdendo completamente se stesso nella perdita della coscienza umana e l’avvento di un’oscura pazzia.

Cosa sopravvive all’intero sviluppo narrativo?

Il Concetto malato e perverso di “Classicismo”, non più inteso come amore per il classico e miglioramento del sé, ma come perdita della propria personalità, della propria umanità, lo smarrimento del significato della propria esistenza ormai mascherata e corrotta dalla mistificazione della classicità, in cui l’uomo non può essere altro che “un’ascesa alla perfezione” e dove, anche di fronte alla morte, muore e rinasce più tedioso di prima, lo stesso Concetto.

Il Concetto si insedia nell’uomo e che nel suo perverso desiderio e fine ultimo la vita umana perde il peso della propria anima ed innalzandosi alla sua divinazione rende il classicismo come Dio di perdita e di illusioni.

La Coffeer #