La Caduta – di Albert Camus

#UnaRecensionealVolo

Buongiorno cari lettori, oggi accogliamo con la rubrica #unarecensionealvolo uno dei più profondi e spietati romanzi realizzati dal filosofo e letterato Albert Camus, autore di un’opera tra le più grandi: La Caduta.

Opera: La Caduta (1956)

Chi è l’autore? Albert Camus è nato a Mondovi, in Algeria, nel 1913. Fu scrittore e filosofo multiforme. Autore di diverse opere tra cui le più celebrate sono Lo Straniero e La Peste.

Camus approda tra queste pagine con la realizzazione di un’opera davvero ermetica e sibillina, è pronto a conferire forma e sembianza al tormento e alle contraddittorietà dell’animo umano, si interroga, si analizza e si confonde tra i pensieri che si perdono nell’ombra delle parole del protagonista, Jean-Baptiste Clamence.

L’intero romanzo si sviluppa intorno ad un incostante e immenso flusso di coscienza che il protagonista riporta sotto forma di monologo interiore. Una confessione, una seduta individuale, un rifiuto del proprio essere, una rassegnazione al proprio destino o meglio ancora, la ricerca della propria immagine nello specchio della propria coscienza che però non viene in alcun modo riflessa.

Il protagonista, l’antieroe di Albert Camus, ci viene presentato come un avvocato parigino di nota fama che nasconde al velo della generosità, della filantropia, della gentilezza e della schietta onestà, il “pugno di ferro” dell’ipocrisia, del narcisismo, della vanità, della finzione verso ogni emozione umana, come se esercitasse una condanna capitale perenne nei confronti della nobiltà d’animo insita nei valori dell’Amore e dell’Amicizia ma non solo.

“Per quel che mi riguarda, ho imparato ad accontentarmi della simpatia. E’ più facile da trovare, e poi non mi impegna. Nel discorso interiore, “ha tutta la mia simpatia” è la premessa di “e adesso passiamo ad altro”. […] L’amicizia è qualcosa di più complesso. E’ lunga da ottenere, ma una volta che ce l’ha non se ne libera più, e con essa deve fare i conti.”

Camus ci pone davanti ai nostri occhi un uomo che mostra a viso scoperto senza timore, a volte rincuorandosi con la propria vanità e con la propria finta avvenenza, la convinzione inetta secondo cui tutti, qualora allontanassero da sé la maschera della finzione nel rapporto con i propri simili, assumerebbero con netta certezza e nella gran parte dei casi, le sue stesse sembianze di coscienza e di pensiero. Ci viene mostrato, senza troppi giri di parole, la durezza del cuore umano di fronte alla propria irreparabile condizione di umana esistenza, una visione veniale condotta per mezzo della fragilità e della dolorosa consapevolezza dell’uomo riguardo la propria vita, le proprie scelte e la propria condizione sociale ed esistenziale.

“Non desideriamo quindi né correggerci, né migliorarci: per questo, dovremmo prima essere giudicati manchevoli. Desideriamo solo essere compatiti e incoraggiati a proseguire per la nostra strada. Vorremmo, insomma, non essere più colpevoli e non fare lo sforzo di purificarci.”

La schietta sincerità che ci viene posta di fronte dall’avvocato Clamence, vive perennemente in uno stato di barcollante dolore e testarda convinzione; è attraverso le sofferenze altrui che l’uomo lenisce le proprie ferite, assumendone vantaggio nella cura della propria anima. Sempre secondo il protagonista, essa conduce da una parte alla ricchezza dell’altruismo e dall’altra all’ambiziosità e alla pienezza dell’essere uomo in quanto percepitosi come “essere sociale”.

Si pone agli occhi del lettore una realtà “a due colori”: la libertà intesa come netto legame alla colpevolezza dell’ “essere”, in quanto esistenza vera e propria, e la percezione necessaria dell’essere “penitenti” per poter poi essere “giudici” prima verso sé ed in seguito verso gli altri.

“L’essenziale è che tutto diventi semplice, come per un bambino, che ogni gesto sia comandato, che il bene e il male siano designati in maniera arbitraria, cioè inequivocabile.[…] Ma sui ponti di Parigi ho scoperto di avere anch’io paura della libertà.[…] Quando saremo tutti colpevoli, allora ci sarà la democrazia. Senza contare, amico mio, che dobbiamo vendicarci di morire soli. La morte è solitaria, mentre la servitù è collettiva.”

Il pellegrinaggio senza redenzione di Clamence possiede un confine invalicabile e predeterminato: la morte. Questo vincolo trova spazio in primo luogo nella storia di una ragazza che decide di abbandonare il velo della finzione e del perbenismo, concedendosi alla libertà insita nella “salvezza” della mortalità.

In tale condizione per il nostro protagonista il pensiero della morte, pur sorgendo incessantemente davanti ai suoi occhi, scatena un continuo contrasto tra la volontà iperbolica della perfezione del proprio “io immortale” e l’oscuro timore dell’ignoto della finitezza.

La Caduta, come ci richiama il titolo del romanzo, ci guida verso due riflessioni separate ma analoghe: la caduta intesa come percorso di purificazione ma vuoto e privo di redenzione e la caduta dell’uomo verso la consapevolezza della propria mortalità.

Dalla consapevolezza nasce il Nuovo, si avvolge allora un velo di sincera remissione sul proprio peccato e solo quando colui che è ormai privo di apparenze sarà finalmente capace di avvicinare a sé la pura e mite essenza dell’esistenza, che comprenderà con esso anche la preziosità della vita.

Camus, con la sua capacità di grande scrittore e filosofo, pone davanti a noi una scelta posta con chiarezza al nostro animo, scegliere di essere guidati alla libertà o guidare noi stessi alla libertà?

Non esiste una risposta assoluta, non esiste un vincolo nel dover scegliere, Camus ci invita innanzitutto “a gridare nel deserto per uscirne” senza dover in seguito, come invece sarà per Clarence, girare il volto dall’altra parte per l’inquietudine di trovare nello specchio d’acqua del nostro animo il nostro riflesso e per poi timidamente riconoscerci.


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